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Dalla valle del Calore all’Ofanto _di Franca Molinaro

l’accellica e la valle del calore _ foto angelo verderosa

Dalla valle del Calore all’Ofanto  _di Franca Molinaro *

Un buon modo per vincere lo stress e dimenticare i problemi quotidiani, o chi li causa, è quello di allontanarsi e smarrirsi nella natura, in luoghi dove la presenza umana è meno marcata. Così in questa giornata di inizio agosto, ho deciso di mettere diversi chilometri di distanza tra gli impegni e la mia serenità. Partenza da casa alle sette, sole poco caldo con leggera foschia, destinazione Valle dell’Ofanto. Nel fuoristrada poche cose, un panino, l’acqua, una tenda militare, un coltello, la fotocamera, un quaderno e una penna, spengo anche il telefono. Scelgo la strada più impervia, la 303 dal Passo di Mirabella fino a Taverne di Guardia poi, il cartello azzurro mi indica il bivio di Andretta. Il Formicoso è una distesa di stoppie che asciugano la rugiada sotto il sole del mattino, campi immensi senza vegetazione arborea, solo graminacee secche. L’aria si fa subito arsa, qualche gazza e qualche cornacchia saltellano tra l’ocra della paglia interrotta dal giallo luminoso dei rotoloni appena imballati. Sulla strada dissestata un trattore col suo enorme carico rientra verso una sperduta fattoria sulla cui aia riposano numerosi attrezzi agricoli.

Non c’è un albero, solo qualche perastro mezzo secco sfoggia i piccoli e durissimi frutti. Poche persone, davanti al santuario della Stella Mattutina, fanno crocchio ma la chiesa è chiusa. Andretta svetta col suo campanile aguzzo, è un paese solitario con poco verde intorno. Proseguo verso Cairano, il paesaggio non muta, mentre scendo si cominciano a vedere macchie di alberi poi, finalmente, alla mia destra, giù, a molti metri sotto di me, lo spettacolo abbagliante della diga di Conza. Sulla mia sinistra la rupe comincia ad incombere sulla carreggiata, è una roccia di arenaria dal colore rossiccio, sgretolata in clasti di calibro differente. La vegetazione la copre e la scopre, le erbacee sono tutte secche, solo qualche senecio mostra audace le corolle giallo sole. Qui fiorisce l’eringio ametistino, tipico di questi suoli e di queste altitudini, ha foglie spinose e colorate di un bell’azzurro brillante. Si raccoglie per composizioni floreali secche ma col tempo perde il bel colorito e diventa cinereo. Attraverso il paese e parcheggio in piazza. Il fazzoletto di belvedere si apre sulla valle dell’Ofanto. A Sud Conza nuova, dietro la collinetta il parco archeologico di Conza vecchia. A mezza montagna Sant’Andrea di Conza e sopra a tutti, Pescopagano è già Lucania. Lo sguardo accompagna la catena di monti fino all’azzurra e appuntita sagoma del Vulture. Alle spalle della chiesa di San Leone, una donna seduta su una sedia chiacchiera con due uomini, saluto e mi rendono il buongiorno come se ci conoscessimo da sempre. -Alla rupe?- Chiedo indicando il selciato in ripida salita. La donna mi fa cenno di si e proseguo. Le erbe secche sono state tagliate da poco, è rifiorito qualche verbasco ma ha i segni della falciatura. Il sole è sempre più caldo e il sudore scende sotto la camicia di cotone. Il sentiero si fa sconnesso poi c’è la terra battuta. Sono a livello di campanile, il tetto aguzzo ora è sotto i miei piedi, due passi e sono sulla rupe. Cairano è sicuramente il più caratteristico dei paesi della provincia di Avellino, la roccia arcuata su cui posa sembra sorreggerlo a stento ma, se stai sulla rupe, il mondo è sotto i tuoi piedi, ti senti più vicino al cielo e tutto puoi abbracciare con lo sguardo e col cuore. Che senso hanno le ambizioni della gente, i capricci degli arrivisti, i malumori dei più? Qui tutto ha un’altra dimensione. L’aria è più rarefatta e il vento ti colpisce in pieno, da tutte le parti. Mi avvicino all’orlo della rupe e non ne vedo la fiancata, avverto il vuoto sotto i miei piedi ma non ho paura. Chiudo gli occhi e sento il cielo attraversarmi, ripulirmi, ricaricarmi. Sento le mie ansie sfumare ed annegare nello specchio illuminato dal sole dell’invaso di Conza. L’Ofanto sbarrato sul nascere ha creato quest’oasi faunistica ed ha convogliato altre acque alla Puglia. La nostra acqua disseta i campi aridi apuli mentre a noi ci viene razionata quella da bere. Fa tutto parte dei giochi politici, come i lunghi coltelli che feriscono l’aria per generare energia fantasma, oppura la minaccia continua delle discariche. Sento inumidire il globo oculare e una lacrima si confonde nel luccichio della diga. Povera terra mia, madre matrigna, per quanto io ti ami avverto l’impotenza del mio amore disperato e sanguinante. La mia anima ferita da rovi e spine di perastro non si rassegna e inevitabilmente piange la sorte che ci accomuna. Terra addolorata pur se vestita a festa per la trebbiatura, il vuoto vegetale si distende agli occhi e fa tremare l’archetipico pensiero dell’oltraggio. Ora il grano è sulle aie a seccare per l’immagazzinamento, sono mucchi dorati che consolano il cuore, è pane per un altro anno, è certezza per l’inverno che verrà ma i campi della Grande Madre riflettono la morte, l’uomo ha raccolto, ha reciso il frutto e lasciato il silenzio, solo qualche spiga per gli uccelli perché non passeranno gli spigolatori. Ma l’uomo di oggi non sa, non riflette e non gode la gioia dei mucchi dorati. La mietitrebbia lascia sull’aia il raccolto e l’uomo non conosce il sudore della mietitura né il valore di un singolo chicco. Il grano ha perduto il  valore sacro ed economico, anche il suo valore sociale è sfumato tra le ferraglie dell’attrezzo meccanico. Non si odono più canti della mietitura né la calandra chiama a raccolta gli uomini per il pranzo, consumato su tovaglie di canapa stese sulle stoppie all’ombra di qualche albero. Sulle aie sono scomparsi i buoi e dai campi le spigolatrici. Non si sa riconoscere il prezzo di una fetta di pane e la si butta nella spazzatura. Un raccolto di grano non serve più a sfamare una famiglia perché non c’è più la massaia che fa il pane o la pasta fresca, il cereale è immagazzinato per pastone degli animali o venduto a quattro soldi a rivenditori che provvederanno a farne levitare il prezzo dopo la macinatura, nel trapasso da farina ad alimento. Col grano e col pane finisce un mondo di concretezze e di sacrifici, di lavoro e sudore ma, sicuramente un mondo a misura d’uomo in cui il rispetto del prossimo, della terra madre e dei suoi prodotti, del lavoro e dell’operato dell’uomo era cosa sacra e indiscutibile. Ora tutti corrono verso un successo fittizio fatto di uscite in TV e visite sul web e per ottenerlo calpestano ogni sentimento, dimenticando il valore del rispetto e della condivisione.

pubblicato su Ottopagine domenica 5 agosto 2012

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Written by A_ve

6 agosto 2012 a 16:04

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