Dal consumo del cibo alla cucina di apprendimento. O altrimenti detto: da una tavola del gusto al gusto della tavola
Mentre un ristorante è un esercizio commerciale, una casa contadina in cui viene offerta la condivisione del cibo ivi prodotto e trasformato è una straordinaria occasione di apprendimento e un luogo di senso potenzialmente rivoluzionario.
Il valore aggiunto di quello che oggi è da me definito uno “home rural restaurant” (declinazione rurale e produttiva del più comune home restaurant) rispetto a un ristorante convenzionale consiste nell’incarnare un esempio reale di micro-economia circolare: mentre il primo è un luogo di produzione e di trasformazione, dove un orto è direttamente collegato ad una tavola, il secondo è solo un luogo di trasformazione, un anello di una catena economica molto più ampia e dispersiva.
In quanto luogo al contempo di produzione e di trasformazione, un home rural restaurant, prim’ancora che essere tale è anzitutto e perlopiù un luogo di esistenza, di vita e di presidio di una micro-comunità (familiare, amicale) che abita una porzione di territorio; è quindi, in prima analisi, un luogo di scommessa di esistenza in cui la sua capacità di resilienza e di sopravvivenza (di sé stesso e del territorio di cui si prende cura) è direttamente proporzionale alla riuscita del progetto: resistere nei territori rurali svantaggiati.
Il prodotto finale di un home rural restaurant – differentemente da un ristorante – è pertanto la vittoria di una solo apparente contraddittoria “eccezionale quotidianità” dove il cibo non è un prodotto di performance gastronomiche stellate ma è gesto quotidiano prima agricolo e poi gastronomico di esistenza e di persistenza di chi anzitutto lo immagina (il visionario), poi lo produce (il contadino), poi ancora lo trasforma (il cuoco) e che infine lo mette in tavola (il padrone di casa), semplice e al contempo genuino.
Mentre nei ristoranti, a prescindere dalla loro qualità, il cibo è in fin dei conti un bene di consumo, una merce, nell’home rural restaurant il cibo è anzitutto un bene di relazione, un simbolo di persistenza e di scommessa sul presente e uno strumento di manutenzione del futuro.
Coltivare e mangiare biodiversità, in un’ottica macro agroecologica, dove cioè le coltivazioni rientrano in un disegno ecologico superiore e viceversa dove il disegno ecologico sistemico passa attraverso tipi specifici di cure agronomiche particolari, significa coltivare la memoria del patrimonio genetico autoctono e attraverso esso preservare la memoria di una comunità.
Per questo il valore culturale di una Casa rurale ospitante, una Casa del buon vivere, è la vera cifra della sua esistenza e della sua diversificazione dal ristorante a vario titolo declinato (trattoria, osteria, ecc…).
Allora essere ospiti di un home rural restaurant non è la stessa cosa che essere clienti di un ristorante, significa avere la fortuna di fare una esperienza di gusto che trascende il gusto stesso: diventa un esercizio di relazione e una esperienza di apprendimento, nello spirito di uno scambio reciproco di conoscenze e testimonianze.
Essere ospiti di un home rural restaurant significa dismettere i panni del consumatore di un gesto gastronomico (il degustatore) per diventare co-produttore di un gesto anzitutto culturale (di tutela del patrimonio materiale di biodiversità e immateriale delle identità rurali) e quindi in una parola diventare commensale (con-mensalis, sedersi alla stessa mensa), quindi tramutarsi da de-gustatore in “con-gustatore”, potremmo dire, il quale con-divide la vita e il percorso di recupero del coltivatore-cuoco, non più cliente ma testimone.
Testimone e compartecipe di una scommessa di triangolazioni ecologiche tra la natura, coloro che passano e coloro che restano, un viaggiare e mangiare altrimenti per pensare e vivere altrimenti.
Cosa c’è di diverso fra questo “Home rural restaurant” ed un tradizionale “Agriturismo” se non il fatto che si continua con la mania ridicola italiana di usare parole inglesi? Vivo negli USA, vengo spesso in Italia, anche nel Cilento. Non sono sovranista, fascista, trumpista o conservatore, ma trovo sempre più ridicolo questo uso di parole inglesi, spesso inutile e anche sbagliato, che sta diventando sempre più comune in Italia, in tutti i campi. Ovviamente, a chi lo fa piace essere autocolonizzato, e neanche se ne rende conto. Personalmente, patronizzerò sempre gli agriturismi e non entrerò mai in un home rural restaurant, neanche se fosse l’unico.
Raffaele
31 dicembre 2019 at 17:58
Premettendo che sono completamente d’accordo in linea generale sull’erroneità dell’abuso degli inglesismi nella lingua italiana, faccio presente a chi vive negli USA alcune cose che potrebbe non sapere stando distante dall’Italia.
L’utilizzo della espressione “home restaurant” non è un vezzo per un inglesismo gratuito ma è dettato dall’obbligo di farlo derivante da un quadro normativo e sanitario nazionale che così ha definito l’attività di piccola ristorazione domestica, non in un altro modo. Quindi se così si chiama (e se così si deve chiamare per individuare una categoria formale e giuridica specifica) io non non posso fare altrimenti.
Leggendo attentamente il testo inoltre, questa espressione inglese io la trasformo in “Casa rurale ospitante” e “Casa del Buon Vivere”, facendo seguito ad un progetto di area vasta che col “papà” del Parco del Cilento (territorio che lei tanto frequenta) io ed altri attori di cultura rurale sul territorio campano stiamo portando avanti da quindici anni a questa parte con numerose iniziative e attività culturali di carattere divulgativo, scientifico e applicativo, mi spiace che lei non ne abbia intercettata alcuna in questi anni.
Inoltre, mi rivolgo a tutti i nostri lettori di questo blog, noi tutti ben sappiamo come la burocratizzazione e non l’esterofilia sia il vero male di questo paese e di come la formula “agriturismo” sia stata abusata e svuotata di contenuti autentici e specialmente al sud sia il più delle volte un “ristorante in campagna” con prodotti di supermercato (denunce, articoli e approfondimenti sul web e carta stampata se ne trovano a migliaia) o una occasione per prendere contributi europei per ristrutturarsi la casa di famiglia facendo finti agriturismi e poi chiudendoli dopo 5 anni, trascorsi i vincoli di legge per tenerli aperti.
Sappiamo bene che tanti “agriturismi” non hanno orti e terreni sufficienti per riempire 200-300 coperti al giorno, e nemmeno 100. Sappiamo bene quanti metri quadri di orto e quanto lavoro ci vuole per riempire una tavola già solo di 20 persone…almeno io lo so perché lavoro nella terra e con la terra, quindi parlo a ragion veduta meglio di chiunque altro.
Gli home restaurant, in ambito rurale, nascono anche per differenziarsi dalla moda dei finti agriturismi e recuperare lo spirito autentico della ristorazione domestica autoctona e autoprodotta, non foss’altro perché hanno dei limiti normativi MOLTO più stringenti degli “agriturismi”: possono fare solo 10 coperti al giorno e in maniera anche discontinua e saltuaria e inoltre il padrone di casa/cuoco deve mangiare con gli ospiti, quindi il massimo della filiera corta e della garanzia di qualità.
casaleilsughero
7 gennaio 2020 at 07:39