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Irpinia, si chiama questa regione, e non la conoscevo. Com’è varia e bella l’Italia! MARIO SOLDATI, FUGA IN ITALIA.

mario soldai fuga in italia irpiniaMario Soldati, Fuga in Italia.

Domenica 19 settembre

Sveglia alle sette. La moglie del fabbro, arrivata adesso dalla campagna, ci prepara un buonissimo caffè. Alle otto siamo in sella. L’amico ciclista ha riparato le camere d’aria.

Attraversiamo in velocità il ponte sul Calore, lasciamo la strada asfaltata, e ci ingaggiamo per la polverosa via di Taurasi. Siamo ancora incerti se dobbiamo, o no, passare da Paternopoli. Queste strade secondarie sono segnate molto sommariamente sulla nostra carta; e Paternopoli, il nome di questo paese, il suono del nome di questo paese, Paternopoli, ci affascina. ” Fuga a Paternopoli “ci ripetiamo continuamente: sarebbe un bellissimo titolo per un libro. Ma tutti i nomi di questi paesi hanno uno strano incanto: Paternopoli, Taurasi, Gesualdo, Fontanarosa, Villamaina, Frigento, Taverne di Frigento, Sant’Angelo dei Lombardi, Torella dei Lombardi, Guardia Lombarda, Nusco. Lo stesso paesaggio si trasforma rapidamente sotto i nostri occhi; e man mano che ci allontaniamo dal ponte sul Calore e dalla strada asfaltata, abbiamo l’impressione di avanzare in una natura favolosa ed antica, la stessa dei quadri di Salvator Rosa[1] e Massimo d’Azeglio[2], o dell’Ariosto illustrato dal Doré[3]. Grandi alberi, boschi disordinati, foltissime forre, campi gremiti di messi che non paion neppur coltivate, piccole valli e lunghi dorsi di colline che si seguono e frastagliano in mille direzioni, e improvvise radure dove scorre tra i ciottoli il filo d’acqua di un torrentello[4]. Irpinia, si chiama questa regione, e non la conoscevo. Com’è varia e bella l’Italia!

Forse aggiunge all’incanto il saperci ormai quasi certamente fuori da ogni pericolo e prossimi alla fine della nostra fuga (dovremmo essere a Torella prima di sera) mentre tuttavia la fuga continua; e continua del pericolo quell’ultima vaga apprensione che quasi trasforma la nostra avventura in uno spettacolo che diamo a noi stessi. Siamo ancora in mezzo ai tedeschi; e gli americani sono vicini. Ma dei tedeschi, che possiamo ancora trovare ad ogni svolta, abbiamo ormai la stessa paura che ne ha un bambino di Melbourne[5], vedendoli al cinematografo[6]; e degli americani, che ormai incontreremo tra pochi giorni se non tra poche ore, abbiamo ancora la stessa sconfinata speranza che concepimmo una lontana sera di novembre, quando la nostra trista e pigra vita romana fu subitamente scossa: convenuti a casa di amici, accovacciati e stretti intorno alla radio, bevendo e brindando, riascoltammo per tutta la notte l’annuncio che pareva incredibile: sbarcano ad Algeri, sbarcano a Orano. Nell’amore, l’attesa e il distacco sono momenti vaghi, incompleti, indecisi; deciso, completo, concreto è, al confronto, il momento del possesso. Eppure quelli, non questo, sono i momenti sublimi. Perchè?

Pensiamo che il segreto sia appunto in quella vaghezza, in quella incompletezza, in quella indecisione. Come nel momento del distacco l’amante possiede ancora il proprio bene mentre lo ha già quasi perduto, così nell’attesa lo desidera ancora mentre già quasi lo possiede. Questo quasi è il prossimo futuro, in un caso più triste nell’altro più lieto del presente, che già invade e allarga il presente. Pare così che il tempo si fermi, lo spazio sconfini, e la nostra natura, liberandosi dal controllo di questi due tiranni, viva una volta tanto nella smisurata condizione degli angeli.

Mentre la mia bicicletta corre leggera per le strade solitarie e polverose, e lento alla mia destra e alla mia sinistra si svolge, come un doppio scenario del viaggio di Sigfrido[7], questo ferico paesaggio, penso, anzi so che il momento più felice della fuga resterà questo. Una voce segreta mi avverte di diffidare del futuro: non sarà come noi crediamo, noi che tanto odiammo alcuni uomini ed altri tanto invocammo. L’invocazione, con l’apparire degli invocati, e l’odio, con lo svanire degli odiati, sembreranno una esagerazione. Gli americani, una volta vivi e veri intorno a noi, non saranno più come li pensiamo. Ci deluderanno. E non sarà colpa loro. Troppo lunga è stata questa attesa, troppo smaniosa perché, attendendoli, a poco a poco non attribuissimo loro un potere soprannaturale; e ormai, senza accorgercene, pretendiamo che ci liberino non soltanto dai tedeschi ma da noi stessi, non soltanto da una ma da qualunque politica, non soltanto dalla schiavitù civile, ma da quella schiavitù privata e lunga come la vita degli uomini che si chiama peccato originale.

Al bivio per Taurasi foro. Il sole è già alto; e ci sediamo per terra a riparare, nell’ombra di un breve argine. Tepore, ronzìo di insetti, campane lontane. Anche qui, in piena campagna, si sente che è domenica.

Un passo cadenzato. Ci applichiamo, con ostensibile affanno, alla riparazione della gomma. Sono tre soldati tedeschi, e un ragazzo italiano, alto, magro, dinoccolato, occhialuto, vero tipo di giovane cattolico, che serve loro di guida. L’italiano è vestito di tela kaki, ha una fascia bianca al braccio e un moschetto in ispalla. I tedeschi, passandoci davanti, ci danno un’occhiata; anche il giovane cattolico ci guarda: ha la nostra espressione tecnicamente preoccupata e il nostro fitto armeggio tra il copertone, la camera d’aria, le leve, la valvola, la pompa, la bacinella d’acqua, il mastice, la pezza, li persuadono che non siamo individui pericolosi o che comunque non andremo molto lontani. Rassicurati, dopo un istante di esitazione, tirano via, allontanandosi verso la direzione di San Giorgio.

 

Rimontiamo in sella e facciamo appena un centinaio di metri, quando un urlo selvaggio lacera l’aria. Ci fermiamo impauriti. L’urlo sembra venire da un boschetto non lontano, in fondo alla piccola valle che la strada percorre. Dopo un attimo di silenzio, un altro urlo identico al primo: ma seguito, questa volta, da una furia di parole in tedesco. Dev’essere un ufficiale o un sottufficiale che arringa dei soldati nel boschetto. Conosco poco il tedesco e non so che cosa significhino quelle parole. Dal tono isterico, rabbioso, convulso, potrebbero egualmente rimproverare di una colpa o incitare a una battaglia. Nella quiete del mattino domenicale, nel tepido sole di settembre che indora alberi e prati, nell’aria ferma e pura, quella voce disumana, gutturale, stridente, straziante, che proviene da un essere vicino a noi ma è invisibile e diretta ad altri esseri invisibili, ci pare quasi il simbolo o il segno di tutto il male umano. Qualcosa come, nel paradiso terrestre di quelle isole del Pacifico dove si avventuravano i primi esploratori credendole disabitate, l’improvviso ed atroce grido di guerra di una tribù cannibale.

Con due o tre urli staccati il Feldwebel[8] ora conclude la sua orazione. Torniamo a udire il cinguettio degli uccelli, il ronzio degli insetti nel sole, il sussurro della brezza, campane lontane. Null’altro. Restiamo qualche istante con gli occhi fissi al boschetto dove certo si celano i tedeschi; ma non udiamo altro. Non un batter di tacchi, non uno scattar di moschetti, non un passo, non una voce, nulla. Lentamente, silenziosamente, scivolando sulla polvere delle carreggiate, riprendiamo il nostro viaggio.

In vista di Taurasi, raggiungiamo un gruppo di soldati italiani. Poiché la strada, proprio all’ingresso del paese, è in ripidissima salita, scendiamo dalla bicicletta e camminiamo con loro. Scamiciati, scalzi, travestiti da borghesi, anch’essi, come tanti altri che abbiamo incontrato, tornano a piedi alle loro case, Calabria o Sicilia. Vanno per campi, tutt’al più per strade secondarie come questa, mai per le asfaltate.

Le prime case di Taurasi cominciano a mezza salita, e la salita finisce in una piazzetta, che già intravediamo, con una fontana e una piccola chiesa. Proprio all’imbocco della piazzetta un giovane bruno, piccolo, scarmigliato, tutto vestito di nero, ci viene incontro, a noi e ai soldati, e con occhi spiritati e voce perentoria ci ordina di fermarci:

« Alt! Cittadini, fratelli, combattenti, alt! Fermatevi! »

Qualcuno tenta di svicolare[9]. Il giovane lo prende di petto e lo obbliga a fermarsi. Sulla piazzetta, c’è un gruppo di altri giovani vestiti di nero, immobili, che ci guardano. E quello riprende, gridando minaccioso come chi non ammetta di essere disobbedito: “ Fermatevi! Voi che avete combattuto e sofferto, venite tutti qui! Venite qui ed inginocchiatevi davanti al fratello vostro combattente, morto per la patria! ”

I soldati, chinando il capo come innanzi all’ineluttabile, obbediscono taciti all’imperioso gesto del giovane che indica a destra, sulla piazzetta. Agostino e io ci guardiamo, spaventati, pur senza capire. Ci balena il sospetto che si tratti di una retata. Fino adesso era andato tutto così bene. Essere fregati proprio qui, alla fine, a due passi da Torella! Tuttavia, non vediamo uniformi, nè tedesche nè fasciste. Avanziamo adagio, in coda ai soldati. Vediamo che entrano tutti in chiesa, spinti a forza dallo scalmanato giovinotto. Entriamo anche noi, per ultimi.

“ Inginocchiatevi ! ” grida il giovane.

Tutti si inginocchiano. Sotto l’altar maggiore, che è illuminato da parecchie file di candele, vediamo dietro un cristallo l’immagine in cera di un santo vestito da soldato romano, Sant’Espedito o San Pancrazio.

“ Sant’Espedito ”, ci mormora all’orecchio uno dei soldati. Appiccicati con puntine da disegno torno torno alla cornice del cristallo, vediamo una gran quantità di biglietti da cinque lire. E infiniti altri biglietti da cinque lire, alla base di ciascuna candela. Nè io nè Agostino ci siamo inginocchiati. Forse per questo un ragazzo pallido, emaciato, dai grandi occhi azzurri, si accosta a noi e, indicando il santo, ci sussurra timidamente:

“ Guardate gli occhi e le ciglia, ma guardate bene… si muovono! Cchiano cchiano! Si muovono! ” Poi si avvicina ancora di più, quasi a toccare con le labbra il mio orecchio, e mormora tremando, come in grande segreto: « L’altro giorno, per la festa del Nome di Maria, le guance avevano un colorito nu poco cchiù rosco… e la pelle accà, » accenna l’orbita, sotto l’occhio, « era nu poco cchiù vviola ! »

La parola miracolo, non osa pronunciarla; del sovrannaturale ha insieme adorazione e terrore, secondo il senso pagano di sacer[10]. Agostino, che è anche lui napoletano, non ci fa caso. Ma io, stupefatto, guardo il ragazzo pallido, e guardo i giovani siciliani e calabresi: sono sempre inginocchiati, fissano sant’ Espedito con tutta naturalezza, lo ringraziano che li abbia fatti arrivare fino lì, lo scongiurano che li faccia arrivare fino a casa.

 

[1] Celebre pittore napoletano del ‘600.

[2] Scrittore e uomo politico risorgimentale.

[3] Disegnatore e incisore francese dell’Ottocento che, tra le altre opere, illustrò anche l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto.

[4] E’ il fiume Fredane.

[5] Città dell’Australia.

[6] Cinema.

[7] Personaggio leggendario della tradizione popolare nordica.

[8] Comandante

 

[9] Cambiare strada.

[10] Latino per “sacro”.

Mario Soldati, Fuga in Italia, per gentile concessione in formato testo del Dr. Nicola Trunfio, Dirigente Istituto Comprensivo ‘Criscuoli’ di Sant’Angelo dei Lombardi (Av). Tratto da “Un po’ d’Irpinia nella letteratura”, Mappe di un itinerario culturale, Edizione Pedagogiche Tre.

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Mario Soldati, Fuga in Italia – Sellerio Editore, scheda  Tradotto in: Francia Editions Gallimard.

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