La produzione vitivinicola di qualità in Campania.
Una sociologa irpina di origine sannita alle prese con il mondo del vino. Può sembrare un controsenso ma, alla fine, ecco venire fuori un prodotto di tutto rispetto. Un libro (“La produzione vitivinicola di qualità in Campania. Protagonisti e territorio”) che è uno spaccato completo di un settore così importante e strategico per il territorio campano. *
Luciana Palumbo, al suo primo lavoro editoriale, per la casa editrice Mephite, propone, dunque, un libro interessante per chi volesse approfondire il mondo della viticultura in Campania e le vicende dei suoi protagonisti. Analizzando lo sviluppo del settore vitivinicolo campano, reso possibile grazie al consolidamento ed alla diffusione di iniziative imprenditoriali che hanno saputo coniugare i saperi tradizionali con le conoscenze e le tecniche della moderna enologia, l’autrice punta alla focalizzazione delle realtà maggiormente orientate alla qualità.
Sociologia e imprenditoria del settore vitivinicolo: uno strano connubio. Come mai ha deciso di scrivere un libro sul vino?
Se si premette, ad esempio, che il campo di interesse della Sociologia spazia dall’analisi dei brevi contatti fra individui anonimi, allo studio dei processi sociali locali e globali, che nel percorso universitario ho studiato Sociologia dell’organizzazione aziendale e produttiva, che la Sociologia cerca di comprendere il perché della realtà presente a partire dalla conoscenza dello sviluppo storico di tale realtà, allora il connubio con i contenuti del mio libro diventa speciale. Ho avuto modo di osservare direttamente le sequenze che riguardano la produzione vitivinicola: dallo scasso dei terreni, sempre necessario, prima dell’impianto di un nuovo vigneto, alla sistemazione delle barbatelle, alla presa in considerazione dell’ambiente di accoglimento della vite (salubrità dei terreni), all’accompagnamento sempre costante e attento del vitigno fino alla raccolta delle uve.
La vendemmia, il trasporto in cantina, e conseguente trasformazione; la cantina è assai severa, irrimediabilmente abbandona il cantiniere se questi non si adopera nei modi e nei tempi giusti. E poi, l’altra parte del mondo vitivinicolo, la commercializzazione, che ho conosciuto attraverso i maggiori rappresentanti.
Ho afferrato tanto dal compianto Lucio Mastroberardino (Terredora). “Lucio era una persona di vero pregio. Elegante, sobria, generosa, attenta, cordiale. Mio padre lo apprezzava parecchio sia come persona sia come ‘commerciante’”. Tuttavia la fascinazione per l’universo vitivinicolo viene prima ancora. Ho avuto il piacere di avvicinare l’impegno di chi professionalmente si occupa di marketing aziendale nel settore in questione, e di essere avvicinata dall’abbondanza discorsiva a proposito di note imprese radicate sul suolo nazionale.
Ho avuto modo di visitare proprietà viticole e cantine considerevoli, di accostarmi al bouquet di pregiati calici, di sentire argomentare circa le caratteristiche organolettiche di questo amato compagno dei pasti: il vino. Il Vinitaly, e mi auguro di poterci ritornare, è stato affascinante, ancora di più, la Sicilia.
Sono questi gli aspetti che hanno sostenuto il mio lavoro, il cui obiettivo è stato quello di approfondire la conoscenza del territorio campano, la caratterizzazione socio-antropologica, e quindi, le determinanti economiche, a partire da una delle sue principali risorse: la vitivinicoltuta (che intanto non mi era così distante!).
Non crede che si tratti dell’ennesimo libro. Qual è il valore aggiunto del suo in un settore così controverso?
E’ un altro libro, sì. Non è l’ennesimo. E’ lo sguardo sociologico, che attraversa l’intera filiera produttiva, a conferire valore aggiunto al lavoro. Nel libro c’è il territorio, c’è la comunità che lo rappresenta, ci sono i protagonisti, le istituzioni regionali.
C’è il raffronto con la realtà di settore, nazionale e internazionale. Ho utilizzato, per questo, non solo le informazioni di chi opera direttamente, ma anche statistiche, ragguagli predisposti dalle associazioni imprenditoriali e dai siti nazionali di categoria sull’andamento economico e sui consumi, normative circa il settore agricolo e, nella fattispecie, vitivinicolo.
Elaborazioni statistiche per un approccio quantitativo del fenomeno, e più rapidamente fare confronti con competitors nazionali e mondiali. Dati, quindi, che si accostano all’approccio qualitativo dei sondaggi d’opinione.
Lei afferma che il settore vitivinicolo è controverso, e probabilmente è così. Può sopportare la suscettibilità di varie interpretazioni. Il valore aggiunto del mio lavoro può essere visto nell’aver considerato con una certa organicità i luoghi, i periodi, i personaggi, i fatti legati alla valorizzazione del vino campano; il volume mette in luce le caratteristiche (criticità e pregi) della filiera produttiva campana e gli orientamenti sia istituzionali sia imprenditoriali per una produzione di qualità.
Nel suo testo parla di sviluppo del settore. Ma, secondo lei, è uno sviluppo concreto, nella vera accezione del termine. Ovvero, ha portato davvero benefici reali all’economia del territorio campano, oppure assistiamo soltanto a una crescita quantitativa di aziende?
Dai dati Istat si evince che la Campania ha in coltivazione 30.000 ettari di vigna con una produzione vinicola di 2 milioni di ettolitri l’anno e che si colloca all’ 8° posto nella graduatoria delle regioni italiane produttrici di vino. Ha un peso del 4% sul totale della produzione nazionale e di circa il 2% sulla produzione Dop/doc sempre nazionale. I vini con denominazione di origine costituiscono il 15% della produzione enologica regionale. Negli ultimi anni lo sviluppo è stato molto significativo e l’Irpinia esprime quasi esclusivamente i vini di fama. In Campania c’è una buona dinamicità rispetto l’evoluzione delle aziende e il loro stesso assestamento.
Tuttavia, come già affermato nel volume di cui parliamo, lo sviluppo della produzione vitivinicola di qualità seppur percepibile e anche promettente è caratterizzato da luci e ombre. Il trend rilevato in Campania non si discosta molto da quello rilevabile in altre regioni meridionali.
Credo che in Campania ci sia un problema di tipo strutturale. I produttori, da soli, non riescono a “economizzare” il territorio. E’ necessario, per questo, l’intervento delle istituzioni. Sostenere la promozione e, quindi, lo sviluppo dell’agricoltura, oltre che del vino di qualità, può contribuire non solo a consolidare le aziende, ma anche a mantenere la manovalanza e l’operatività di attori che necessariamente sono coinvolte nelle diverse fasi della filiera produttiva. L’economia del territorio può beneficiare della presenza delle aziende di piccola o di media-grande dimensione, ma forse ancora non c’è stata la consapevolezza che bisogna approntare un discorso d’insieme. I Consorzi di Tutela, ad esempio, sono poco o per niente attivi nell’impegno dello sviluppo collettivo.
Nel suo libro si parla, ovviamente, della globalizzazione. Crede che sia un fenomeno penalizzante per le aziende campane?
La globalizzazione non è penalizzante, richiede l’aumento delle competitività e una maggiore compliance sia privata sia pubblica a difesa dell’economia locale, e quindi, glocalizzazione, per evitare la sopraffazione, appunto, del mercato globalizzato. Ancora una volta, diventano fondamentali, tra gli altri, il ruolo del viticoltore e degli imprenditori che si mostra in scelte responsabili per la realizzazione di un prodotto di qualità – senza quest’ultima cade il senso di quanto stiamo dicendo – e il ruolo delle Istituzioni (Camera di Commercio e Regione). “
“La Francia non è facilmente scalfibile”. Come mai secondo Lei? E cosa si dovrebbe fare, in concreto, per far sì che lo sia?
Perché deve essere scalfibile? Ancora non abbiamo imparato a farne modello. Comunque, l’Italia contende alla Francia la posizione di principale produttore mondiale di vino, ma per i vini di qualità il nostro Paese registra una produzione che è di circa la metà di quella francese ed è lievemente inferiore a quella spagnola (in ambito europeo). Siamo carenti nelle politiche di marketing territoriale, questo è il punto sostanziale. I francesi, oltre al resto, sono rigorosi nel mantenimento del livello qualitativo a cominciare dai lavori in vigna, passando per la cantina e la ricerca scientifica e terminando con la ristrutturazione dei vigneti: i vini da tavola stanno praticamente scomparendo.
Quanto un prodotto come il vino può aiutare allo sviluppo dell’economia campana?
Il vino può essere traino nella conduzione a nuove possibilità delle risorse del territorio campano. L’accoglienza del turista ad esempio, è da considerare fortemente, non solo per il consumo locale di vino e cibo, ma anche perché possa seriamente pensare di tornare. Anche qui c’è una scarsa fattività. La Toscana, dotata di migliore senso dell’ospitalità, vende il 30% dei suoi prodotti in cantina. In Campania, le vendite dirette, seppur in crescita, sono del 4%. Può aiutare parecchio, se lo sviluppo economico del territorio è considerato attraverso le risorse che possiede (pomodoro, mozzarella, cereali, olio, castagna, nocciole, formaggi, ambiente sano, tutti da preservare e promozionare).
E quanto un prodotto come il vino può aiutare lo sviluppo del turismo campano?
Credo di averLe già risposto.
Crede che il “fenomeno vino” sia soltanto una moda del momento oppure è un nuovo processo di sviluppo endogeno?
Magari lo è stato, una moda, agevolata da un mercato senza limitazioni di impianti con la garanzia quasi totale di smercio delle eccedenze. A partire dal 1978, l’OCM adotta politiche restrittive con il divieto di nuovi impianti e l’obbligo della distillazione delle eccedenze, e alla fine degli anni ’80 subentrano incentivi finanziari per l’abbandono della viticoltura.
Questi ultimi, hanno conservato sul mercato chi più idoneo a restarci, favorendo la riduzione della produzione di vino di bassa qualità. Lo sviluppo endogeno, intendendo per esso la capacità d’innovazione locale, è un concetto assai interessante da capire, a difesa dell’economia produttiva locale per evitare la disintegrazione redditizia territoriale.
Lo sviluppo endogeno è necessario nel mercato globalizzato poiché presume una reazione a quanto giunge “da fuori”, e per questo, come già accennato, è necessario potenziare le capacità imprenditoriali, il lavoro qualificato con eventuali training locale, accumulare risorse finanziare, competenze e conoscenze locali con relative capacità di controllo; la sapienza scientifica necessariamente, a mio avviso, va fusa con la saggezza delle tecniche tradizionali. E ripetendolo, è necessaria l’implementazione delle interdipendenze produttive. Sembra che ci siano sforzi privati e pubblici in questo senso, ma non sono sufficienti per consentire di parlarne con fermezza, e di conseguenza affermare l’esistenza di un processo nuovo in atto.
Crede che i giovani apprezzino davvero il legame vino-territorio oppure per loro è importante soltanto bere?
I giovani sono distanti dal nostro territorio, lo sentono ostile alla realizzazione della propria identità. In Campania c’è un consumo pro-capite basso (inferiore del 10% rispetto a quello nazionale); di là da quanto si possa pensare, le famiglie campane hanno un consumo moderato rispetto alla media nazionale. Il consumo regionale è di 4,2 milioni di ettolitri, un volume importante dovuto alla numerosità della popolazione campana. Coloro che bevono vino rappresentano soltanto il 48% della popolazione, contro una media nazionale del 55%. Non punto il dito sui giovani.
Secondo me, i giovani seppur consumino vino per creare convivialità, allo stesso tempo, ne conoscono i limiti entro i quali stare. Prima ancora del legame vino-territorio, i giovani hanno bisogno di sentire l’appartenenza alle proprie origini con altre testimonianze: la buona funzionalità delle componenti governative. Il territorio deve imparare a comunicare con i giovani.
Perché ha intervistato soltanto grandi (e soliti) imprenditori?
Generalmente l’intervista sociologica si serve di un campione. Gli imprenditori intervistati sono i responsabili di aziende che operano con successo, dando impulso alla realizzazione di un prodotto di qualità.
La scelta può essere discutibile, ma è stata attivata in funzione della varietà dei modelli organizzativi e gestionali: espressione di forme consortili (La Guardiense, cooperativa di Guardia Sanframondi in provincia di Benevento), di aziende relativamente giovani (Grotta del Sole, per la pregevole produzione nei campi flegrei – Quarto in provincia di Napoli, e L’Azienda Sorrentino che opera generosamente ai piedi del Vesuvio), o che sono espressione di una consolidata storia familiare e imprenditoriale (Mastroberardino, Caggiano e Feudi di San Gregorio).
Produttori della terra del fuoco e della terra di mezzo che fanno qualità in contesti territoriali e climatici di particolare importanza. Non sono i soliti, sono i nostri imprenditori, e nel libro si sottolinea l’importanza dell’operare delle piccole e medie aziende.
Ho scelto una tale rappresentatività per meglio approfondire l’analisi del processo di sviluppo, quindi, l’andamento della produzione, dei mercati, delle procedure di controllo della qualità, e per meglio valutare attraverso la loro testimonianza gli effetti della crisi mondiale sul settore. Varianti complesse di un discorso complesso che non possono prescindere dalle capacità manageriali e di competenza.