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ARTIGIANI e STELLE _ di Eduardo Alamaro

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Giovanni Spiniello, maestro artigiano pittore scultore irpino

Cari amici dei Piccoli Paesi e paeselli irpini,

Vi scrivo accaldato e applicato questa mia da Napoli bella per ricordarvi che “i ricchi hanno Dio e la Polizia; i poveri hanno solo i poeti gli artigiani e le stelle”. Così recita infatti una poesia della resistenza palestinese. Ma sabato scorso 29 giugno, alla Mediateca SANTA SOFIA di Napoli, dalle ore 12.30 alle 14.30, è andata invece in scena la “Resistenza Artigiana”. Anzi due resistenze artigiane & poetiche, una dopo l’altra. Due al prezzo di una. Una napoletana, l’altra irpina, perciò vi scrivo, amici miei. La prima (in ordine di apparizione), espressione della (già) polpa costiera; l’altra invece tipica dell’osso appenninico eterno, terrone e terre-motabile, (all’occorrenza anche montabile). Vale a dire, come dico, il match: centro antico di Napoli dell’Anticaglia versus le colline di Paternopoli, contrada San Felice, 8. Vi piace il tema? Si? Allora seguitemi….

La resistenza poetica “vecchiartigiana” napolitana è stata affidata al racconto di un documentario (“Resistenza Artigiana”, appunto, 21’, anno 2012) dovuto a Antonio Manco, giovane regista sociale on the road; l’altra, alla viva voce dell’agricoltore-performer Luigi Forino che ha ben recitato se stesso e messo in scena i prodotti (olio  di olive “Ravece” e vino Taurasi verace doc) dell’azienda agricola “L’albero del Riccio” di Sofia Troisi.

Cinema napoletano contro teatro irpino, quindi; arte mediata contro la vita in diretta, sul palcoscenico della Mediateca Santa Sofia. E io, come D’annunzio, ho scelto la vita; la vita di Giggino l’irpino, col suo olio “di categoria superiore”, vino e caponata; nonché raccolgo il suo invito a Paternopoli (che allargo a chi ci legge: cell, 3384718874).

Se poi dovessi dare un punteggio calcistico su questo match giocato tra due periferiche resistenze artigiane, tra città e campagna, tra (ex) osso e polpa della Campania, direi che: Irpinia batte Napoli, 3 a 1 (doveroso goal della bandiera, nda).

E ciò perché Giggino l’irpino m’è parso poeta-artigiano resistente contemporaneo; superiore per simpatia e vitalità, per concretezza e leggerezza di racconto ruspante d’oggi. Esempio: “Il vino non lo potrei imbottigliare, ma lo imbottiglio lo stesso per gli amici, perché io ho i calli alle mani e loro, quelli delle scrivanie del doc, no!!” Applausi e con-sensi: io so’ amico tuo, una butteglia a mme … e pure a mme!!

Ma a guardar bene, benché giocando fuori casa, Gigino l’irpino aveva partita vinta già in parte e in partenza. Ciò perché il racconto di Carmine, resistente artigiano tipografo napoletano dell’Anticaglia, è apparso tutto autocentrato e macerato in sé, perfetta fotografia di un ultraventennale fallimento di indirizzo politico a Napoli, incapace di dar speranza sociale concreta oggi. In particolare  per la mancanza (o inconcludenza) di un adeguato progetto artistico-industriale del centro storico di Napoli. Tutto giocato nella difesa di un mondo mitizzato, favoloso, mastroggeppesco, totocchio, condito colla tradizionale nostalgia tipica partenopea del bel tempo che fu, fuje!! Tiempi belli ‘e ‘na vota! (Vota e fai vuotare, nda).

Ragion per cui Carmine, giovane partenopeo cercante, si fa qui “artigiano della nostalgia” (mestiere che, come dirò, può rendere bene, nda); si traveste Carmine da pastore napoletano vivente nel presepio del centro antico di Napoli; si fa attrazione turistica, pesce esotico (come egli stesso ha simpaticamente detto nel dibattito post-film) dell’acquario napoletano dell’Anticaglia (e/o dell’Anti-coglio: a chi coglio coglio!). Con indubbio successo. Tanto che i furbi tassisti napoletani, per rendere tangibile al turista l’effetto “antico doc”, giunti davanti alle vetrine della “strana tipografia” di Carmine, rallentano a bella posta e invitano il furastiero a vedere il passato che non muore. Nun adda passà ‘a nuttata: fa mercato la linotype fuori legge del superstite, del resistente; fa turismo, come una vecchia locomotiva a carbone che sbuffa a fatica: uff, uff!!!

Carmine si pone così programmaticamente, fuori del mercato attuale, nel mercato della nostalgia, forse dell’arte, della poesia, della Napoli eterna dell’anima, (all’anima tua!!). Si colloca in una resistenza artigiana vissuta e goduta come residuo di produzioni passate. Più che artigia-nato è artigia-morto, una prece, riposa in pace!

In mancanza di leggi che ne riconoscano il valore poetico e, forse, di attrazione turistica o estetica, il lavoro di Carmine potrebbe quindi estinguersi da un momento all’altro: “AAAiuto, Aiutatemi!!!” Ma egli resiste ostinatamente1 Ogni giorno la sua bottega, ci dice: “si trasforma in un meraviglioso museo personale in movimento”. E’ noto però che l’ipotesi del centro antico di Napoli, inteso come “museo a cielo aperto”, è fallito da un pezzo (e una pezza di basso lino, nda).

“Contenuti nuovi in contenitori antichi”, era (ed è) –al contrario- la nostra parola d’ordine. E poi: “Il centro antico di Napoli non è un Presepe”. Ma l’unica cosa artigianale veicolabile, vendibile per la sopravvivenza quotidiana spicciola, appare oggi al malcapitato resistente in loco, arruolarsi come comparsa nel presepe napoletano; o, al massimo, spero per Carminiello, mettendo in moto l’antica “machina” riesumata: è il com’eravamo, il museo vivente vecchio-artigianale (ancora una prece!)

Il fallimento dell’ipotesi “Madre” nel centro storico, Museo d’arte contemporanea che ha assorbito immensi finanziamenti europei, non ha fatto germogliare nulla di collaterale sul versante del nuovo-artigianale, posto a supporto dell’arte global. Se tutto ciò è vero, Carmine può resistere solo se l’operazione nostalgia “antiche machine” si fa sistema, si fa filiera; si fa associazione alla menzogna e alla fiction vintage locale. Si fa cioè effetto “Mulino bianco napulitano”, Carminiello come Heidi: ti sorridono i monti e i morti, … le macchinette e le caprette ti fanno ciao, ciao, Carminiè …

Tutt’altra storia per l’irpino Giggino che ha avuto il grande vantaggio di agire in una situazione ambientale favorevole e montante. Ciò perché negli ultimi trent’anni, dopo il sisma dell’80, sono stati selezionati i vitigni locali e forti sono stati gli investimenti e le risorse per raffinare il prodotto. Il vino è diventato così un affare. Lo stesso dicasi per l’olio: da una decina di anni a questa parte anch’esso è stato riscoperto, riconfezionato e raffinato in loco irpino.

La ricerca, anche universitaria, ha generato una nuova classe di vini italiani che, spiega Gigino, “ha sottratto l’uva locale al destino di uva di base per il famoso barolo (partenza dalla stazione ferroviaria di Taurasi, arrivo Asti)”. E ciò si verificava sin dalla fine dell’800; da quando cioè, a seguito della “filossera”, le uve piemontesi, così come quelle francesi, ebbero bisogno di una convincente “controfigura”. Solo recentemente gli irpini hanno capito che avevano un tesoro per le mani e hanno imparato a vinificare (e vivificare bene).

Ma Giggino non fa solo vino e oli: è artigiano resistente evoluto contemporaneo. Legge Proust, recita Hesse, ama Leopardi e il canto notturno di un pastore errante d’Irpinia; è uomo colto e coltivato, dotato di gusto estetico d’oggi & di ieri. Ci dice, ad esempio, che “davanti a ogni filare d’uva pone a guardia e decoro un vaso di rose”. Grazie dei fior …

In entrambi i casi, in Carmine e Gigino, siamo di fronte ad artigiani colti, antropologicamente interessanti, mixati, ibridati; frutto del sogno della scolarizzazione degli anni del boom, con esperienze politiche resistenti, ancora residenti in Irpinia, anche dure.

Giggino ci dice, non è un mistero, che è stato resistente e rifondatore comunista d’artigianato … Ben punzecchiato dall’avvocato Elena Coccia, del già “Soccorso Rosso”, ricorda simpaticamente, tra una caponata e un bicchiere di Taurasi, un’incursione notturna dei carabinieri nella sua casa in campagna, alla vana ricerca della prigione BR di Aldo Moro, nel 1978, prima repubblica, un millennio fa: come siamo vecchi!!!

Dello sfortunato statista democristiano naturalmente non c’era alcuna traccia, né treccia; ma nella cantina di “Gigino il resistente” c’erano invece, vecchi e arrugginiti, due fucili da caccia e un bossolo militare dimenticato. Il tutto non dichiarato, ahi, ahi!: reato Reale penale! Da qui il conseguente processo, con relativa felice assoluzione dovuta a un simpatico pretore locale che discrezionalmente decise: “…sarebbe reato da Corte d’Assise, ma ce lo facciamo noi qui in casa, a Sant’Angelo!” Applausi d’oggi, risate artigianali, qui a Napoli- Santa Sofia Loren. Insomma, capite lo sfizio mio, amici dei Piccoli Paesi? E’ teatro contadino … efficacissimo teatro irpino. Da sviluppare, forse.

Ma anche Carmine, il napoletano resistente nell’Anticanaglia, non è da meno di Gigino, però. Il protagonista del corto “Resistenza artigiana” ha infatti una faccia simpatica giullaresca e pensosa. Ricorda Massimo Troisi. Ma forse un po’ anche Eduardo, quello della mitica macchinetta del caffè artigianale, “la napoletana”: morte alla Bialetti!!

Solo che qui nel film, Carmine, per variante, dialoga con la macchinetta a stampa; quella in tutto e per tutto simile alla pedalina di Totò e Peppino nella tipografia Lo Turco del film anni cinquanta: “La banda degli onesti”. Eh si!, perchè qui, in tutte e due i casi di “resistenza e residenza artigiana campana”, siamo di fronte a una poetica banda disarmata resistenziale degli onesti, da commedia all’italiana di sempre.

Ma forse Carmine, ora che ci penso, così auto-reclusosi nell’Anticanaglia napoletana, è anche un po’ “Papillon”: gli mancano gli uccellini da curare, ma ci sono però i vecchi caratteri e le matrici a stampa da far cantare … (gli scrivo io i dialoghi per la sceneggiatura, se vuole, nda). Comunque oggi e sempre, per entrambi, vale il liberatorio grido di Papillon, simbolo di libertà: «Maledetti bastardi globali… sono ancora vivo e artigianale!!».

In conclusione, parola d’ordine: “Indietro tutta, miei artigliani!”; e poi: rimpianto, pianto, talvolta furbesco d’artigianato. Simile a quello dei colleghi architetti che fanno un passo indietro di fronte al Cad e il disegno se lo fanno di nuovo a mano. Così finiscono in un altro mercato, alto e raffinato, colto, quello dell’arte del disegno, nella gallerie fameliche di Milano.

L ‘artigianato appare, oggi, qui a Napoli, nella vulgata e nel senso comune e comunale, una scatola vuota dove ci si può infilare di tutto: città, campagna, contadino, meccanico, tipografo, vinicultore …; l’artigianato appare qui, in questo intermezzo di pranzo alla Mediateca Santa Sofia Loren di Napoli, un luogo dello spirito e dello spiritoso; del sogno bonario, arrangiato, solitario, purché “fatto a mano”. Ricetta pigra, come si vede. Che ignora, a mio avviso, tutte le esperienze, la pubblicistica e i libri del nuovo artigianato post-industriale, (ma questa “poesia artigiana” dura a morire è sempre buona a Napoli, per tutte le politiche e per tutti i politici di turno e di torno.

Come si legge, io non sono d’accordo con questa impostazione rinunciataria, con questa “resistenza artigiana”; con i contenuti e le forme del documentario. E l’ho detto. Finito il film avevano infatti chiesto: “C’è qualche domanda? Qualcuno vuole dire qualcosa?” Li ho presi sul serio, ho alzato la mano, sono intervenuto. Ho cercato di articolare il discorso, di dire la mia personale implicazione al tema proposto. Ho capito però subito che queste obiezioni non erano in programma. Un fuori programma, il mio, non molto gradito: “Ma a questo chi l’ha mandato? Ma che vuole? Ma chi lo paga? Questo dis-fattista!!!”, forse hanno pensato “i programmisti”.

In effetti cercavo solo di dire che c’è abuso della parola artigianato. Il quale va studiato nella sua immensa storia di ieri, e nell’evolversi dell’oggi. Per distinguere così tra artigia-nato e artigia-morto. Perché con la parola artigianato si intendono oggi troppe cose insieme, e contraddittorie: bisogna stringere sul factory, dare un segnale di adeguatezza all’oggi. Artigianato è infatti un atteggiamento produttivo, è Partito Iva, è cultura di progetto, del quale l’artigiano è un pezzo esecutivo, inventivo e partecipativo. Cioè il domani produttivo d’Italia. Per una resistenza e rifondazione nuovo-artigianale. Speriamo.

Saluti dalla Napoli artigiamabile,

Eduardo Alamaro

Written by A_ve

8 luglio 2013 a 07:07

2 Risposte

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  1. carissimo Eduardo….adesso dovrò vedere le immagini e le stampe della tipografia, assaggiare il vino

    tiziano dalpozzo

    10 luglio 2013 at 14:41

  2. grazie edoardo ,per la difesa sostenuta nel tuo articolo,importante per l’artigianato,che se non morto ,è solo per l’amore che nasce dal cuore e nell’anima di chi si adopera per questa missione,oggi ostacolata in tutti i modi possibile da questa burocrazia politica ,cieca e ottusa attuale.ma sopratutto grazie per la difesa dell’entroterra campano,trascurato da millenni,ma combattivo ,oggi ancor di più,perchè si è dovuto confrontare con popoli lontani (cina ,india ecc),che con sfruttamento della manodopera,esportavano e esportano prodotti artigianali..convenienti..ma con scarso valore artistico…pure imitazioni (fatte male),ma attraenti per chi fa speculazione.Noi artigiani nel dna, moriremo fisicamente,ma non smetteremo mai di combattere sul campo di battaglia,per far si che la nostra opera viva per sempre.grazie,vito ferrante da luogosano (av)

    vito ferrante

    8 luglio 2013 at 12:42


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