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IRISBUS, 40 anni di speranza e di lavoro _ di Paolo Saggese

foto a. verderosa

1973 – 2011  Quarant’anni di speranza e di lavoro _ _ _ di Paolo Saggese

L’Irisbus di Flumeri ha quarant’anni, ma sembra in questi giorni dimostrarne molti di più. Rischia il “prepensionamento”, rischia la precarietà, la flessibilità, la chiusura.

Questi rischi allarmano e deprimono, perché dietro i numeri ci sono le storie di migliaia di persone, di famiglie di lavoratori, di bambini, di donne, di chi ha lavorato e chiede solo di poter lavorare. Questa storia ha avuto inizio quarant’anni fa, come ha raccontato in modo appassionato Cesare Ianniciello in un libro, di cui abbiamo già parlato su queste colonne, un interessante e sentito diario – inchiesta edito per i tipi della Sellino editore, con una prefazione limpida ed acuta di Generoso Picone: “Fiat Val d’Ufita, autobiografia di un quadro irpino” (Avellino, 2007).

Con estremo equilibrio, dunque, l’autore descrive la vita dello stabilimento Iveco di Val d’Ufita, e quindi la sua esistenza, di giovane avvocato, che entra in Fiat, e che, sin dall’inizio – settembre 1978 – fa propri gli interessi dell’azienda al punto da dedicarle la vita lavorativa, da responsabile del personale e dei rapporti sindacali, sino a quando, per vicende interne e per conflitti legati proprio a contrattazioni sindacali, viene emarginato e costretto al ritiro.

Una delle pagine più interessanti di questa storia, anche dal punto di vista documentario, è quella che racconta l’annuncio della realizzazione della Fiat – Iveco, nel cinema di Grottaminarda, nel novembre 1973, per voce di Ciriaco De Mita. Ecco alcuni stralci del racconto: “Per i presenti, ed eravamo in tanti giunti da tutti i paesi della Valle e da buona parte della provincia ebbe un effetto quasi ubriacante e di incontenibile euforia collettiva. Tutti applaudivamo ogni passaggio del discorso e ci rivolgevamo alla persona accanto per commentare e complimentarci, anche se si trattava di persona mai vista prima di allora”. “Posti di lavoro, sviluppo diffuso: erano le parole nuove che sostituivano, nelle interminabili discussioni di piazza, quelle vecchie che raccontavano di magri raccolti e di fughe verso paesi europei o altre zone più fortunate d’Italia del Nord”.

Allora si pensò che poteva dirsi finito quel calvario descritto da Ettore Scola (e da Gad Lerner) del lavoro in fabbrica, a Torino, del giovane contadino di Trevico.

Non tutte le promesse furono mantenute, il progetto fu in parte ridimensionato (anche a causa delle mutate contingenze storiche), lo sviluppo atteso con l’indotto non c’è stato in modo consistente, vi fu un reclutamento non sempre trasparente della manodopera. A questo si aggiunsero i conflitti politici tra Dc e Pci. Il partito comunista aveva da un lato una visione diversa dello sviluppo dell’Irpinia, meno legata all’industria pesante e più all’agricoltura, e dall’altro temeva e quindi osteggiava interventi, che potessero alimentare il potere dell’avversario attraverso una gestione clientelare dei posti di lavoro.

Se vi fu un limite della classe politica dell’epoca, fu quello di non saper affrontare insieme una possibilità così importante per l’intera Irpinia.

E poi vi fu il terremoto, che spostò l’attenzione della politica verso le zone più duramente colpite dal sisma e che, quindi, rallentò qualsiasi tipo di sviluppo industriale nella Val d’Ufita.

Ho parlato poi altre volte, in seguito, con Ianniciello sia di questo libro sia del futuro della Irisbus, e mi colpivano le sue riflessioni già di alcuni anni fa, quando dichiarava esplicitamente la sua preoccupazione per uno stabilimento condannato – riteneva già allora – alla chiusura nell’arco di pochi anni. Infatti, l’assenza di investimenti e la riduzione del monte complessivo di ore lavorative avrebbero reso lo stabilimento poco competitivo e se non in perdita, soltanto in pareggio, cosa che i tempi attuali di produttività e di crisi, cui si aggiunge l’immobilismo politico, risulta essere intollerabile per il capitalismo odierno.

D’altra parte, se pensiamo alle politiche imprenditoriali messe in campo oggi dalla Fiat, ci rendiamo chiaramente conto che il colosso di Torino – Detroit, sesto a livello mondiale per produzione di automobili dopo Toyota, GM, VW, Ford e Nissan, è una multinazionale radicata in tutto il mondo, avendo stabilimenti in Polonia, Turchia, ex Jugoslavia, India, Brasile, Argentina, Messico, Stati Uniti, con circa cinquantacinquemila dipendenti sparsi per il mondo e circa venticinquemila in Italia. Oggi la Fiat guarda evidentemente alla globalizzazione, guarda ad un futuro del mercato del lavoro senza lo statuto dei lavoratori siglato proprio nel Settanta, guarda a rapporti sindacali essenziali e favorevoli, che è riuscita ad imporre anche negli Stati Uniti. Infatti, chi è assunto a partire dal 2009, negli Stati Uniti deve accettare una paga dimezzata ed impegnarsi a non scioperare sino al 2015. Insomma, gli Stati Uniti stanno rispondendo alla crisi come se fossero un Paese sottosviluppato o privo dei diritti sindacali, al punto che i metalmeccanici tedeschi hanno di recente protestato contro la realizzazione di uno stabilimento Volkswagen in Usa proprio temendo che la fabbrica teutonica abbandoni anch’essa gli operai sindacalizzati d’Europa a vantaggio – si fa per dire – di quelli americani.

Insomma, il destino della Irisbus si pone su un piano internazionale molto complesso in cui si intrecciano globalizzazione, crisi economica, politiche imprenditoriali di rilievo internazionale, conquista di futuri mercati e in particolare di quello americano, asiatico ed esteuropeo, nuova visione strategica dell’impresa multinazionale, non più legata ai destini di un Paese, completamente slegata dalla politica, che è riconosciuta come un limite e non un elemento aggiuntivo di forza.

Anche l’impossibilità della politica a condizionare i grandi dell’economia è un effetto della deriva liberista di questi anni.

In tale ottica, il destino di mille famiglie, di dieci paesi, di una parte importante della nostra realtà provinciale vale quanto un granello di sabbia nell’oceano sconfinato del potere economico mondiale.

Abbiamo realizzato il migliore dei mondi possibili, diceva qualcuno pochi anni fa, oppure abbiamo semplicemente creato un mondo più cinico e brutale, dove gli uomini sono oggetti, numeri, dove le vite valgono meno di nulla, dove l’unica cosa che conta è il denaro, e il denaro regna, mentre i suoi sudditi lo venerano giornalmente, dall’alba al tramonto, senza sosta e senza fermarsi, in preda a raptus e ad una fascinazione irresistibile, di cui ognuno di noi dovrebbe soltanto liberarsi.

Ma se uno oggi dice queste cose, rischierebbe di passare per un donchisciotte veteromarxista!

3 Risposte

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  1. Cari amici,
    condivido pienamente l’analisi, l’homo oekonomicus è ciò che siamo divenuti o stiamo diventando, questo in ogni settore.
    E la globalizzazione non ha fatto altro che accelerare questa deriva.
    Paolo Saggese

    Paolo Saggese

    5 agosto 2011 at 20:12

  2. forse siamo arrivati tardi sulla questione dell’Irisbus
    ma non è mai troppo tardi per capire di quanta solidarietà è capace la popolazione dell’Irpinia
    grazie Paolo per questo tuo primo articolo su ‘piccoli paesi’

    A_ve

    1 agosto 2011 at 17:18

  3. La sintesi degli ultimi 40 anni, in poche righe, essenziali e nitide.

    A margine, espongo alcune semplici considerazioni. Credo che non esista crescita continua, come pretende Confindustria, né decrescita come propongono alcuni idealisti. Parlo di idealisti, non di benpensanti. Questi ultimi sanno bene che non esiste la decrescita, ma l’utilizzo cosciente senza spreco.

    Allo stesso modo, credo che la globalizzazione, per la parte attinente all’economia, non possa essere spinta oltre gli attuali giochi finanziari al massacro. Prima o dopo, i grandi speculatori (pochi nel mondo) dovranno comprendere la differenza tra economia e finanza. L’economia è la sostanza, quindi la produzione di beni e servizi, la finanza è la rappresentazione numeraria parziale di questi aspetti. Fino a quando la finanza continuerà a giocare solo con valori numerari, al rialzo o al ribasso, fuori dalla rappresentazione ragionieristica dell’economia reale, e poche società di valutazione idiota ( il cosiddetto rating) impoveriscono o arricchiscono, a giorni alterni le borse mondiali, la parte più povera di tutto il mondo, pagherà lo scotto di questi giochi al Risiko.

    Un detto popolare dialettale dei nostri paesi, recita: “a ‘ndù ne lieve e nun ne punne, se vere lu funne!” traduco per l’interpretazione dei lettori non autoctoni: là dove togli e non ne riponi, vedi il fondo. Vale per qualsiasi oggetto o valore.
    Tradotto nel mondo della finanza: se il capitale investito percepisce solo dividendi, sempre più consistenti, senza mai investire in ricerca, innovazioni e qualità, finisce come la Fiat Ufita: chiude e appare il fondo. E le conseguenze per la gente e i luoghi sono drammatiche, mentre il capitale si dirigerà in altri siti per un nuovo ciclo di sfruttamento finanziario e umano.

    L’economia mordi e fuggi è inconsistente come la moda nel vestiario, dura poco. E i nostri politici e i grandi “imprenditori” nazionali sono stati sarti di prêt-à-porter.

    Nel settore auto, la cecità dell’attuale amministratore delegato Fiat (480 volte lo stipendio medio di un impiegato/operaio) non ha capito che il contratto dei metalmeccanici che riduce i salari, toglie ricchezza a quegli stessi dipendenti che avrebbero potuto comprare le macchine prodotte da loro, continuando ad arricchire l’azienda. E non ha capito che in Serbia, altri dipendenti con salari da fame di quella nazione, non potranno comprare le macchine prodotte. Questo gran maestro dell’economia aziendale non è nemmeno suddito del dio denaro, ma un servitore sciocco di chi lo paga che, a sua volta, è cieco.

    Nel momento in cui si capirà che il benessere personale non ha mai prodotto quello generale, saremo al nuovo punto di partenza, per tutti. E quella sarà vera democrazia.

    Mario Santoro

    1 agosto 2011 at 13:58


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